LA PIAZZA E LA POLITICA

In uno scenario di crescente malessere sociale, drammatico per quel che riguarda soprattutto le Pmi, gli artigiani e tutti quegli esercenti che, nonostante la graduale fase di riapertura (la mitica “Fase 2”), non sono riusciti a ripartire con le loro attività (anche perché i costi imposti dalle misure del distanziamento sociale risultano loro fatali), stiamo registrando nelle ultime settimane un crescendo di iniziative di piazza contro il governo, sia per le misure da esso assunte per fronteggiare la crisi (sanitaria, sociale ed economica) sia per quelle invocate dal mondo del lavoro e non assunte; iniziative di protesta (invero un po’ fiacche) al momento per lo più ignorate dall’informazione ufficiale.
Questi moti di protesta procedono sia sui binari della politica istituzionale e parlamentare sia su quelli dello spontaneismo (dove si registrano anche iniziative carnevalesche e imbarazzanti, deliri vari…), delle organizzazioni extraparlamentari, dell’associazionismo, etc.; una agenda che va via via ingrossandosi di manifestazioni annunciate, manifestazioni ridimensionate, manifestazioni rimandate, manifestazioni programmate, flash mob e sit-in (che termini tristi), sia nel rispetto delle regole imposte sul distanziamento sociale sia ignorandole bellamente.
È un quadro al momento abbastanza caotico, frastagliato, diviso.
Personalmente, mi è capitato di manifestare più volte, quasi sempre con i miei camerati (ahimè, che termine abusato), con motivazioni e obbiettivi diversi, in contesti ed anni differenti.
A fronte di una modestissima esperienza di piazza (niente di nemmeno lontanamente paragonabile, anche per motivi anagrafici, agli anni di altissima tensione sociale e politica e di altrettanto altissima partecipazione, del secolo scorso), mi lasciano oggi perplesso in linea generale quelle scelte fatte in nome della piazza per la piazza, di un esibizionismo muscolare per risibili gare tra sigle “concorrenti”, di rifugio sloganistico (forse) per mascherare vuoto di idee e proposte; ma anche quelle manifestazioni che teoricamente si pongono come alternative ad una opposizione partitica considerata – forse troppo semplicisticamente – inesistente, ma che fanno leva su rivendicazioni al ribasso rispetto a quelle avanzate dai partiti stessi (in cui qualcuno rispettabilmente non ci si riconosce); oppure quelle manifestazioni che fanno propri i difetti, i limiti, le infezioni stesse che caratterizzano il sistema che si contesta.
Sarebbe meglio iniziare ad interrogarsi se abbia ancora un senso battere i pugni su un portone di un palazzo da cui nessuno potrà rispondere; se non è il caso di portarsi oltre (per non rimanere indietro) la difesa di simulacri e sistemi di rappresentanza che si dimostrano superati nei fatti, e impudicamente ignorati da quegli stessi governanti (o meglio, amministratori condominiali) che infarciscono la loro mefitica retorica di paroloni svuotati di senso, di valore, di attualità.
Chi scrive ritiene che ribellarsi a questo governo, e ancor più alla lobotomizzazione diffusa (indipendentemente dalla cosiddetta Pandemia da Covid-19), sia legittimo e sacrosanto.
Tuttavia, credo che alcune riflessioni – senza la pretesa di offrire risposte preconfezionate ed infallibili – vadano fatte, soprattutto se la manifestazione di piazza – che può a seconda del contesto declinarsi in:
– uno strumento di pressione,
– una prova di forza, un tentativo di spallata al governo (solo però se assume una dimensione veramente popolare in termini di partecipazione, come quella della allora CdL in Piazza San Giovanni a Roma, nel 2006, per intenderci),
– una protesta rabbiosa (sfogo),
– un veicolo per trasmettere energie positive,
rischia di assumere i contorni dell’autoreferenzialità, della vetrina, senza peraltro proporre qualcosa di credibile, di concretamente sostenibile e alternativo sul piano della proposta politica e su quello organizzativo socioeconomico a ciò che si contesta; in questo caso ci troviamo davanti a qualcosa che degenera nell’aleatorio e nel vacuo, prestando il fianco ad una successiva fase, non improbabile, di rassegnazione e resa al fatalismo tra chi è mosso da buona fede e genuinità d’intenti.
Un certo tipo di manifestazione può quindi, al limite, essere accettabile anche se solo serve a dimostrare a se stessi e al mondo (quindi come singolo e/o come gruppo) di esistere, ma non certo sufficiente e non per forza positivo, e può trasformarsi a volte in un boomerang.
Fermo restando che la piazza conserva una sua forte valenza simbolica e comunicativa (anche se in parte svuotata dalle tecnologie), sono però saldamente convinto che in mancanza di alcunché di prospettico, di strategico, di senso politico e di conoscenza del nemico e dei meccanismi del potere (che ha abbondanti anticorpi per controllarti, neutralizzarti, digerirti, strumentalizzarti e indirizzarti anche inconsapevolmente), la manifestazione risulti uno strumento inefficace.
Chi punta a cavalcare la piazza con l’ottica limitata al solo momento elettorale, rende un pessimo servizio alla causa, così come chi prescinde dalla visione e dalla valutazione politica (non obbligatoriamente partitica).

Scriveva un grande soldato d’Europa: «(…) una rivoluzione non si fa a colpi di spacconate, e meno ancora a colpi di vacue ingiunzioni dal fracasso di latta. Qualsiasi rivoluzione che arricchisce è frutto d’una lunga preparazione intellettuale»…è un appello che non dovremmo mai ignorare.

LA CARNE È DEBOLE MA LO SPIRITO È FORTE

Luca Zampini
Progetto Nazionale Verona