FORZE ARMATE E COVID-19


Non so a voi, ma l’immagine che a me resterà scolpita nella memoria e che mi farà ricordare questo periodo davvero particolare della nostra vita è la lunga fila di automezzi militari, che in maniera ordinata e composta, trasporta le salme delle vittime di Covid-19 da Bergamo, oramai incapace di sostenere il tragico flusso di decessi, verso una dozzina di altri Comuni italiani, resisi disponibili ad accoglierli.
Il 18 marzo, il quotidiano Repubblica commentava queste immagini come «immagini da teatro di guerra», ecco appunto, guerra. Una guerra senza bombardamenti, senza macerie, senza vedere il sangue scorrere lungo le strade, senza nemmeno vedere in faccia questo nemico invisibile, ma dove i morti si contano a migliaia. Chiaro, la guerra è un’altra cosa, ma qualche parallelismo legato ad alcune situazioni si può fare.
Solo i più anziani tra noi possono affermare di aver già vissuto un periodo così complicato; un periodo in cui si deve fare scorta di cibo e medicinali, perché non si sa come e quanto questa situazione può evolversi e quindi lunghe code nei supermercati e disinfettanti di ogni tipo esauriti in pochi giorni, a questo si aggiungono le limitazioni alla libertà personale, non si può uscire di casa senza un valido motivo, posti di blocco delle Forze dell’Ordine per controllare il possesso e la validità della propria autocertificazione, non è uno stato di guerra, ma probabilmente questo periodo è quello che nelle nostre vite più ci si avvicina.
Allora se questo è vero, mi chiedo, la guerra la combattono le Forze Armate, no?
E allora perché non è stata affidata a loro la gestione di questa emergenza, di questa “guerra”?
Le nostre Forze Armate sono una struttura che possiamo considerare una comunità all’interno della comunità nazionale, tutte le figure che troviamo nella società civile: medici, avvocati, ingegneri, muratori, meccanici, etc., le ritroviamo anche in ambito militare, con la differenza, direi non da poco, che chi porta le stellette fa parte di un unicum granitico, con una gerarchia indiscutibile, dove, quando viene impartito un ordine, questo viene eseguito senza eccezioni a dispetto del rischio, del tempo e delle energie fisiche che dovranno servire per portarlo a compimento.
Lo abbiamo visto nelle purtroppo innumerevoli calamità naturali che hanno colpito l’Italia. Dopo alluvioni e terremoti, chi avete visto in prima in linea a prestare soccorso? Ai tempi della leva obbligatoria erano ragazzi che, magari fino a qualche mese prima bighellonavano senza un perché per il paesello, ma che una volta indossata la divisa, come per un magico rito di passaggio, si trasformavano in soccorritori instancabili che spesso hanno fatto la differenza nella vita di molte persone.
Lo vediamo (o meglio, ci arriva qualche notizia solo quando ci sono morti o feriti) dall’indiscutibile rispetto guadagnato sul campo dai nostri militari nei vari teatri operativi internazionali, da parte dei colleghi delle altre nazioni.
Non perché siamo solo bravi a distribuire la cioccolata ai bambini affamati, ma perché ci distinguiamo per professionalità, impegno, rispetto delle popolazioni locali e per il valore dimostrato in combattimento.
Si, perché è questo che fanno i nostri militari nelle missioni all’estero, combattono, anche se da noi è più politicamente corretto parlare di “missioni di pace”, di “esportazione della democrazia” o di “aiuti umanitari”; laggiù si spara, si uccide, si viene uccisi, si viene feriti fisicamente e psicologicamente.
Non stiamo qui a discutere sul vero senso di queste missioni, che spesso sono delle pedine mosse all’interno di un risiko globale, come non lo fanno i nostri militari, che con puro senso del dovere agiscono e portano a termine la missione, per l’Onore del reparto a cui appartengono e dell’Italia.
Dal 2008 lo vediamo anche tutti i giorni per le strade delle nostre città, da quando nel 2008 è iniziata l’Operazione Strade Sicure, in cui i militari vengono utilizzati in compiti di pubblica sicurezza, con ritmi di impiego snervanti e carichi di lavoro molto gravosi, oltre che, a mio avviso, per svolgere un ruolo non conforme a chi, scegliendo la vita militare, ha intrapreso un percorso che non si può ridurre a piantonare un monumento.
A chi pensa “beh, chi si arruola lo fa per lo stipendio sicuro e per non fare niente”, consiglio la visione del documentario “Reduci” di Andrea Bettinetti, oppure di andare a vedersi i dati sui suicidi, sempre più numerosi tra questi nostri ragazzi.
Allora perché non affidare quest’emergenza a loro, che hanno la catena di comando, le professionalità, il senso del dovere, la prontezza della risposta, collaudate da decenni di addestramento anche per eventualità come questa che stiamo affrontando ora?
Forse per nascondere anni di tagli al bilancio delle nostre Forze Armate, alla chiusura di caserme e reparti che erano il fiore all’occhiello della nazione, che ci hanno portato ad avere un numero di effettivi da poter schierare sul campo, degno di una nazione con un quinto della nostra popolazione e certamente non compatibili con il ruolo e la posizione strategica che abbiamo. Forse per la percezione diffusa tra l’opinione pubblica di un’importanza marginale dello strumento militare, utile fino ad un certo punto, come semplice supporto di altre istituzioni per affrontare situazioni critiche per lo più “interne”. Forse per l’eventuale tipo di impatto sociale. Forse per non turbare l’antimilitarismo diffuso. Forse per tutte queste cose insieme o forse per altro.
Allora per cosa li impieghiamo i nostri militari?
Per il trasporto delle salme, per costruire qualche ospedale da campo, per rendere disponibili dei posti letto nelle strutture sanitarie delle Forze Armate, ma niente di più.
Troppo poco direi, per una struttura che, se pur sempre più ridimensionata, sbeffeggiata, criticata, nel corso negli anni ha dimostrato sempre la sua efficacia e determinazione in ogni situazione.

Stefano Raffagnini
Progetto Nazionale
Circolo San Giovanni Lupatoto