Troppi, purtroppo, ignorano non solo i pericoli, ma anche la stessa natura o addirittura l’esistenza dell’infinità di sigle degli accordi commerciali internazionali (bilaterali o multilaterali) che di fatto vanno a determinare ogni aspetto della nostra vita quotidiana.
Che ad ignorare la galassia di queste sigle – e gli aspetti connessi – sia l’uomo della strada, il semplice cittadino, è anche comprensibile; che ad ignorare siano i politici che ci dovrebbero rappresentare è già un fatto grave; che poi tra i politici consapevoli delle ricadute negative di molti di questi accordi ci siano coloro che li votano, li promuovono e contribuiscono a farli operare sotto traccia per consentire il guadagno delle multinazionali a scapito di conquiste sociali, diritti e tutele acquisite, sono casi questi, che andrebbero puniti per alto tradimento della propria comunità locale e/o nazionale!
Gli accordi commerciali internazionali per un mercato unico transatlantico hanno tra le loro caratteristiche inquietanti, quelle della poca trasparenza e della mancanza di discussione pubblica. E qui, ci si potrebbe interrogare sul ruolo degli organi d’informazione…
Le élites del potere mondiale stanno modellando una società ad uso e consumo della speculazione finanziaria e delle lobbies del profitto.
Questo tentativo di plasmare popoli e mercati a volte sembra incontare degli ostacoli – vedi il recente caso del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership altrimenti detto “Trattato Transatlantico”), momentaneamente finito in un cassetto – ma come spesso avviene, dietro l’angolo si manifesta prontamente il pericolo di far rientrare dalla finestra quel che era uscito dalla porta…
È questo il caso del CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), altro accordo commerciale transnazionale, questo, per la creazione di un’area di libero scambio tra il Canada e l’Unione Europea, approvato in sede di Parlamento europeo il 15 febbraio 2017.
Il CETA, come il TTIP, contiene l’eliminazione delle barriere tariffarie, la liberalizzazione di servizi sanitari, trasporto merci, (via terra, mare, aria), circolazione delle persone e dei capitali, servizi finanziari, telecomunicazioni, eliminazione dei monopoli di Stato, difesa della proprietà intellettuale, riduzione dei diritti dei lavoratori, riduzione delle protezioni ambientali e via elencando.
Oltre ai pericoli reali per il nostro agroalimentare, col rischio di distruggere interi comparti agricoli già sofferenti (vedi quello del grano), o al rischio delle allerte sanitarie da contaminazione legate alle importazioni, oppure al ricorso non soggetto ad alcuna limitazione in Canada di sostanze attive impiegate invece nella Ue sotto controllo (vedi glifosato e neonicotinoidi), o ancora sul fronte delle esportazioni alimentari con l’evidente gravissimo danno per il cosiddetto Made in Italy laddove all’Italia vengono riconosciuti solo 41 prodotti IG – indicazioni geografiche a fronte di ben 288 DOP – denominazioni di origine protetta e IGP – indicazioni geografiche protette, il CETA reca in sé uno dei pericoli maggiori nell’aspetto relativo alla negoziazione: l’istituzione di un meccanismo di “arbitraggio delle controversie” tra Stati ed investitori privati!
ICS, si chiama, Investment Court System (parente stretto dell’ISDS – Investor State Dispute Settlement che già figurava in altri trattati), sistema di risoluzione delle controversie sugli investimenti che concederebbe alle aziende multinazionali uno statuto giuridico uguale a quello degli Stati e delle Nazioni; in parole povere, imprese multinazionali e società private potrebbero trascinare davanti ad un tribunale ad hoc, quegli Stati o quelle comunità territoriali che facessero evolvere la loro legislazione in una direzione considerata nociva.
La controversia di natura commerciale verrebbe arbitrata in modo discrezionale da giudici o da esperti privati, esterni alle giurisdizioni pubbliche nazionali o regionali; vi si aggiunga che l’ammontare del risarcimento dei danni sarebbe potenzialmente illimitato (cioè non vi sarebbe alcun limite alle penalità che un tribunale potrebbe infliggere a uno Stato, a beneficio di una multinazionale), e il giudizio pronunciato sarebbe inappellabile!
Gli investitori stranieri avrebbero quindi il potere di aggirare la legislazione e i tribunali nazionali per ottenere ricompensazioni pagate dai contribuenti per azioni politiche governative finalizzate alla salvaguardia, per esempio, della qualità dell’aria, della sicurezza alimentare, delle condizioni di lavoro, dei salari, della stabilità del sistema bancario, contro la concorrenza sleale e così via.
Verrebbero ignorati gli interessi dei Popoli e delle Nazioni, verrebbe rimessa in discussione la capacità degli Stati di legiferare, le norme sociali, fiscali, sanitarie e ambientali lasciate in balia di accordi tra gruppi privati, tutto in nome della libera concorrenza globalizzata.
Un dato su cui riflettere: ad oggi circa 14·400 multinazionali possiedono più di 50·800 filiali in Europa…
Ma non solo questo.
Il Canada si trova in un’area di libero scambio con gli Stati Uniti (il NAFTA) e sul territorio europeo operano circa 47·000 società americane di cui circa 41·000 possiedono una succursale in Canada. Basterebbe quindi un banale stratagemma per trasferire parte della proprietà in queste filiali e consentire loro, alla bisogna, di appellarsi di diritto al tribunale privato previsto dal trattato. Appare evidente come il CETA sia anche uno strumento da parte delle multinazionali americane per aggirare gli ostacoli incontrati dal TTIP ed entrare prepotentemente nel mercato europeo.
Quella nefasta potenzialità delineata sinteticamente nelle righe precedenti ha già trovato concretizzazione con precedenti di contenziosi promossi da imprese straniere in Paesi come Egitto, Perù e Canada, per citare alcuni esempi, ma nel mondo sono centinaia le procedure di questo tipo.
Chiudiamo qui questo sintetico spettro delle negatività e dei pericoli insiti in questo accordo (così come in altri simili, già in vigore), con una semplice considerazione di natura economica e finanziaria. Chi si fa promotore di questi accordi, solitamente fa leva propagandistica sulle grandi potenzialità (del tutto ipotetiche) di crescita del volume di affari europeo: “fino a” 12 miliardi di euro annui! Allora, 12 miliardi di euro l’anno per 10 anni fa 120 miliardi ossia lo 0,3% dell’intero Pil europeo (16·000 miliardi di dollari circa), e volendo fare una semplicistica media tra i 28 Stati Ue, significa che ognuno otterrebbe 4 miliardi scarsi (l’Italia spende annualmente per l’immigrazione clandestina una cifra simile…). Ci prospettano benessere e prosperità economica, ma a quale prezzo?
TTIP, CETA e consimili sono strumenti del dio Mercato e del Pensiero Unico nemici delle specificità, delle diversità culturali, delle appartenenze; plasmano un modello unilaterale che poggia sull’edonismo, sul consumismo e sull’indifferenziato, per affermare l’uniformità; passaggi che si inseriscono nel mai sopito conflitto tra il primato della funzione politica e quello della funzione economica, e che vanno quindi contrastati, con la controinformazione, con la denuncia pubblica, con gli atti amministrativi, con le iniziative culturali, con la pressione lobbistica settoriale sul mondo della politica “elettoralistica”.
Progetto Nazionale – Gruppo Ricerche e Documenti “Economia”